Aprile 2009: Andrea Vitali mi dà appuntamento alla stazione ferroviaria di Lecco, dopo aver incontrato gli studenti di una scuola: “così andiamo insieme a Bellano e intanto in macchina cominciamo a chiacchierare”.

Mentre alla nostra sinistra scorrono le montagne e il lago di Como, aziono il registratore; quando lo spengo siamo al tavolino di un bar di Bellano dove Vitali scambia una battuta con ciascun avventore e tutti gli danno del tu.
L’intervista uscì su Job24.it de Il Sole 24 Ore. Sul sito del Sole 24 Ore non c’è più, come Job24.it, ma si può leggere qui.

 

PARTE I

 

Nome: Andrea

Cognome: Vitali

Nato il: 5/02/1956

Città: Bellano (Como)

Residente a: Bellano 

 

Il primo lavoro

Il contadino. Da parte di mio padre la mia famiglia ha sempre avuto la campagna, le vacche nella stalla e il pollaio. E fin dalle scuole medie, in estate, io ed i miei fratelli andavamo nei campi ad aiutare nostra zia a fare il fieno; era una pena. Adesso, nel ricordo, la cosa assume dei contorni aulici, però allora, mentre gli altri andavano in barca a vela, noi appena iniziate le vacanze scolastiche si doveva andare dalla zia Colomba in campagna per la fienagione. Poi c’erano anche le viti e noi aiutavamo quelli che dovevano dare il verderame, lo zolfo, tutti lavoretti che non si fanno più perché quel tipo di attività è scomparsa.

Altri lavori da studente?

Mentre facevo le superiori ho lavorato anche in un negozio di caccia e pesca, sempre d’estate, quindi so fare le cartucce per la pesca, anche se non mi piace pescare. E poi facevo lavoretti come andare a leggere i contatori dell’acqua, consegnare i certificati elettorali, lo scrutatore nei seggi elettorali, così riuscivo a mettermi in saccoccia qualcosa. Io ed i miei fratelli eravamo in sei, figli di un impiegato comunale e di una casalinga. Non ci è mai mancato nulla, però dovevamo chiaramente dare una mano.

Il primo stipendio da medico

600 mila lire come guardia medica notturna e festiva, nel 1983.

Il primo guadagno da scrittore

Un anticipo di 500 mila lire che mi diede la Camunia di Raffaele Crovi per “Il meccanico Landru”, nel 1992

Il lavoro più gratificante e il più avvilente

Non mi ricordo di aver fatto lavori che consideravo avvilenti. Il più gratificante è senz’altro quello di scrivere.

Titolo di studio

Laurea in Medicina all’Università Statale di Milano, nel 1982. Tesi incentrata sulla genetica nelle demenze presenili.

Sulla carta di identità alla voce professione c’è scritto

Medico, perché è una cosa seria. Se mettessi “scrittore”, uno potrebbe aprire la carta d’identità e pensare: “ma cos’è?” Invece medico ti dà una dignità.

Lingue straniere conosciute

Nessuna

Ne avverti la mancanza?

No perché, come per la matematica, non ho mai avuto nessuna propensione per la lingua straniera e non l’avverto come una mancanza. Certo, quando vai all’estero capisci che sei limitato perché un minimo d’inglese bisognerebbe saperlo, però ormai alla mia età è troppo faticoso.

La parola “lavoro” cosa ti fa venire in mente?

Una cosa che non mi fa paura. Il lavoro non mi spaventa, anzi mi spaventerebbe il non averlo.

 

PARTE II

Andrea Vitali, medico di base: “il medico e lo scrittore fanno un lavoro molto simile perchè svolgono entrambi un’indagine”.

 

Quando, da bambino, ti domandavano: “Cosa vuoi fare da grande?”, come rispondevi?

Il giornalista. Mi sembrava davvero il mestiere adatto per questa voglia di scrivere; per fortuna poi le cose sono andate diversamente perché non credo sarei stato un gran giornalista: mi piace troppo occuparmi degli affari miei, scrivere quello che voglio.

Come mai abbandonasti l’idea?

Alla fine del liceo mi ero preparato un bel discorso da fare a mio padre, per convincerlo che dovevo fare il giornalista. Lui mi lasciò parlare per un quarto d’ora poi, col suo senso della realtà e con una certa durezza, mi ha fatto capire che potevo fare quello che volevo, da grande, anche il barbone. Ma intanto dovevo continuare a studiare.

Perché la scelta è ricaduta su Medicina?

Non c’era una gran vocazione. Un po’ la spinta paterna, un po’ il fatto che nella mia classe tanti si iscrissero a Medicina, dunque ci fu dell’imitazione da parte mia. Io, sinceramente, non sapevo cosa scegliere, non avevo assolutamente le idee chiare, comunque alla fine è andata bene perché è un lavoro che conserva una sua bellezza.

Come sei diventato medico della mutua?

E’ stato per una tragica fatalità. Il medico che mi aveva associato nel 1984, è morto nel 1987 in un incidente sulla strada che stiamo percorrendo. Allora non era ancora stata inaugurata, ma lui aveva il permesso di usarla per le urgenze, e una notte, tornando a casa da Lecco, è andato a sbattere contro una ruspa parcheggiata dietro ad una curva perché non c’era ancora l’illuminazione. L’accordo regionale di associazione prevedeva che, in caso di morte, sarebbe subentrato l’associato, quindi dalla sera alla mattina mi sono ritrovato titolare di 1200 pazienti. E per parecchi mesi ho sofferto molto questa situazione perché mi sentivo un avvoltoio.

Guadagni di più come medico o come scrittore?

Come scrittore.

Da quando di più come scrittore?

Dal 2003, da quando è uscito “Una finestra vistalago” con Garzanti le royalty hanno cominciato ad essere molto superiori allo stipendio da medico di base, che fra l’altro è un bello stipendio.

Ravvisi dei parallelismi fra il lavoro di medico e quello di scrittore?

Ce ne sono un sacco, secondo me, perché c’è una notevole corrispondenza fra l’anamnesi, cioè la raccolta dei dati di un paziente nella cartella clinica, e le domande che mi pongo per raccontare una storia. C’è lo stesso procedere di domanda in domanda: “che cosa faccio fare a questo personaggio adesso”, oppure: “ti fa male lo stomaco, ti fa male la testa?” Sono due indagini con due scopi diversi, che porto avanti allo stesso modo. E poi il lavoro di medico mi dà la possibilità di ascoltare non solo le risposte tecniche, ma anche le storie personali dei miei pazienti.

L’unico romanzo in cui il protagonista è un medico di base è “Dopo lunga e penosa malattia”. Dal punto di vista letterario, quali sono i mestieri che consideri più interessanti?

Il prete, o meglio il prevosto, il notaio, il barbiere, in genere la categoria dei commercianti, ad esempio i farmacisti, anche il dottore. E poi il carabiniere; ho sempre avuto molta simpatia per i carabinieri, per l’ambiente della caserma. In un piccolo posto queste categorie professionali sanno tutto di tutti.

Hai mai preso spunto per i libri da vicende di cui sono stati protagonisti tuoi pazienti, o che ti hanno narrato loro?

Certo, “Olive comprese”, ad esempio, parte da un racconto della Ermelinda, una mia paziente e amica. Anche “Dopo lunga e penosa malattia”, benché stesse maturando già da un po’, è scoppiato grazie ad un mia paziente: un giorno d’estate era venuta in ambulatorio e stava bene, ma non riuscivo a convincerla che era tutto a posto, esami del sangue, pressione… allora lei andandosene sbotta: “Bravo dottore, ora lei mi dice che io sto bene, poi magari fra qualche giorno troviamo il cartello: “dopo lunga e penosa malattia”. E questa sua frase non solo mi ha dato un bellissimo titolo, ma da quel giorno cominciai a scrivere il romanzo.

 

PARTE III

Andrea Vitali scrittore: “si può insegnare a scrivere una lettera commerciale, ma non una lettera d’amore”.

 

In quali ore della giornata scrivi?

Mi sveglio molto presto, verso le sei, quindi generalmente scrivo alla mattina, soprattutto nei periodi di bella stagione. Dopo aver visitato la vecchietta o il vecchietto che avevo in programma, dalle nove in poi mi rimane tutta la mattinata libera, avendo la maggior parte degli ambulatori al pomeriggio. E comunque ancor prima di uscire, mentre mio figlio fa colazione, mi piace metter giù due righe che sono l’invito a riprendere quando torno.

Di sera non scrivi mai?

Mi capita quando sono in giro per qualche incontro sui libri; se torno a casa tardi i miei bioritmi saltano e allora mi metto a scrivere, se no generalmente la sera leggo.

Scrivi quotidianamente?

Sì, anche solo una riga o due, però la quotidianità per me è fondamentale.

A mano o al pc?

Rigorosamente a mano. A me piace temperare la matita, l’artigianalità del gesto, e conservo tutti i mocci in un vaso che ormai è stracolmo, non mi sento di buttarli via. Solo in un secondo momento ricopio su pc.

C’è un luogo in cui preferisci scrivere?

In autunno e in inverno nel mio studio, invece d’estate mi piace mettermi su una poltrona nel giardinetto di una casa che sono riuscito a comprarmi qualche anno fa, sulle alture del lago.

Segui dei riti nella stesura di un romanzo?

L’unico rito è quello di prendere una matita nuova, ma è più un vezzo che un rito.

Nel processo di produzione di un libro ci sono vari passaggi, quali preferisci e di quali faresti a meno?

Farei a meno della rilettura allo sfinimento delle bozze, perché è una cosa che snatura l’anima della storia. Ad un certo punto mi domando se la storia sta in piedi o no, è come continuare a ripetere una parola: alla fine perde di senso. Pur controvoglia lo faccio volentieri però, che è un po’ un controsenso, perché mi permette di trovare delle imperfezioni. Il momento più bello arriva quando il mio editore mi telefona perché ha letto il manoscritto e mi dice che si è divertito molto. In quel momento capisco che il libro funziona.

Scrivere è un mestiere che si può imparare?

Io ho imparato. Certo, ci deve essere un humus di partenza, che significa sapere cosa vuoi scrivere. Dopo lo impari via via leggendo e ascoltando i consigli di quelli che ne sanno più di te. Per me Raffaele Crovi è stato il primo grande maestro. Uno che parlava poco ma ti dava delle dritte importanti. Ad esempio “Il procuratore”, il mio primo libro, l’ho scritto perché era una storia che avevo sentito in famiglia e un giorno la stavo raccontando a Crovi mentre camminavamo in Corso Sempione a Milano, andando verso casa sua. Allora lui mi ha fermato e mi ha detto che, invece di raccontarla a lui, avrei dovuto scriverla.

Cosa ne pensi delle scuole di scrittura, tipo la Holden di Baricco?

Secondo me non si può insegnare a scrivere, è una mia convinzione. Si può insegnare a scrivere una conferenza, a presentare un argomento o scrivere una lettera commerciale, ma non si può insegnare a scrivere una lettera d’amore perché o hai questo amore o non ce l’hai.

Tutti i romanzi, eccetto “Una finestra vistalago”, che arriva fino agli anni Settanta, sono ambientati nella prima metà del Novecento; la realtà attuale non ti interessa o preferisci raccontarla al passato?

Preferisco raccontarla al passato perché mi stimola di più la fantasia. L’oggi non mi interessa più di tanto perché mi sembra tristanzuolo e meno profumato di fantasia rispetto a quegli anni. Prendere una storia attuale e portarla indietro di cinquant’anni, adattandola a quella cornice, mi diverte anche di più.

Qualche produttore cinematografico ha comprato i diritti di un tuo libro per trarne un film?

No perché, a quanto mi dicono, ci vogliono troppo soldi per fare film in costume. E la cosa a me non dispiace neanche un filo, perché vi sono certe figure, soprattutto femminili, che se finiscono nelle mani sbagliate diventano delle cose da denuncia.

Quando scrivi pensi “sto lavorando”, o “mi sto divertendo?”

“Mi sto divertendo”. Mi piacerebbe pensare “sto lavorando”, ma mi rendo conto che non riesco a considerarlo un lavoro perché ho bisogno di raccontare, anche se scrivere non è sempre semplice.